
Il secolo della psicologia, il Novecento, ci aveva abituati alla razionalizzazione del sentimento, alla elaborazione della lacrima, a restare indifferenti di fronte all’uccisione della poesia. Nel Natale del coronavirus – primo nome dato al nemico invisibile che, adesso, è pure mutato, al dittatore senza volto venuto dall’Oriente che ci chiude in casa e non ci fa parlare d’altro, proviamoci. Chiamiamo questo sentimento che ci affligge col suo nome: tristezza.
Non si tratta, solo, di non poter vedere nonni e nipoti, amici e parenti, riempire le piazze a mezzanotte, bere e abbracciarsi. Ed è successo di peggio nel 2020, l’anno che sta per chiudersi. Ma, anche, di non potere – ormai da tempo – fare le feste in discoteca – senza vassoi riempiti di cocaina e manette – ma spensierati quanto basta per liberare il meglio di se ed evitare il peggio.
Siamo tristi per non potere cantare cori allo stadio senza insulti e violenza, per non andare a teatro o ai concerti (a ciascuno il suo), per non prendere parte ai comizi, perchè la politica, il grande gioco del potere e della rappresentanza, non serve a fare scelte giuste ma a percepirle, sempre e comunque, come proprie. Il senso della democrazia è anteporre quello stortissimo legno che è l’uomo a ogni decisione che lo riguardi, che cambi qualcosa alla vita sua e dei suoi.
Siamo tristi per non potere sedere ai tavoli dei bar di certi borghi siciliani, con la folla che sembra autoalimentarsi, il brusio persistente e le bottiglie stappate che ricordano tanto la Spagna.
Proviamo, almeno, a chiamare tutto quello che sta accadendo col suo nome, evitando le falsità e certe sofisticherie gratuite del secolo scorso che sono state anche proprie di certe forme d’arte nemiche della storia e della tradizione. Ritornare nei musei di Firenze e Siena, Venezia e Napoli servirà anche a questo. Se nel Natale più cupo di sempre ci viene negato il diritto di comunicare con gli altri, occupiamo il tempo per cercare le parole migliori da usare nel tempo che verrà.