
Si parla di Stato fallito quando esso non è più in grado di pagare i debiti e, quindi, non può più badare ai cittadini, garantire loro salute e sicurezza. Ma, nel caso del coronavirus non di fallimento dello Stato sembra doversi parlare, quanto, piuttosto, di fallimento della società civile che è, nella sua intima essenza, il luogo virtuale, fisico o immaginario, degli scambi.
Si pensi alla chiusura di una grande fiera, dove sono in mostra le ultime novità, dove si incontrano venditori, compratori, investitori o curiosi e dove, si tratti di idee, di opinioni, di cataloghi, di biglietti da visita, di cortesie, ciò che conta è lo scambio.
Si pensi ai bar di Milano, centro nevralgico degli affari e del commercio, dove, all’ora dell’aperitivo, si fa la stessa cosa. Cambia il pretesto: non mobili, occhiali o un prodotto finanziario ma un bicchiere di analcolico, quasi che ti bevessi la città e che ispirò la celebre espressione Milano da bere.
Si pensi alla messa, il più straordinario evento di comunicazione di sempre, ora che, sempre per colpa del virus, non ci sarà acqua nelle acquasantiere, non si potrà prendere l’ostia dalla bocca e, soprattutto, non si potrà dare la mano che è il segno dei segni della pace, condizione ineludibile a che ci siano rispetto reciproco, volontà di ascolto, perdono e, quindi, non solo società ma, appunto, società civile.
Si manifesta, certamente, con il coronavirus – che il presidente cinese Xi Jinping ha definito subito un demone – il male nella sua più chiara manifestazione, come agente che anzichè unire, fa il contrario: divide. Gesù Cristo è stato l’uomo sociale per eccellenza, che lasciava avvicinare a sé i bambini e confortava malati, reietti e prostitute. E la religione che porta il suo nome è quella che si è aperta al mondo ed ha aperto il mondo, superando i confini, globale nelle sue radici e fondamenta.
Il sindaco di Milano, città che resta una grande capitale europea e cristiana, ha detto che “bisogna ridurre la socialità”. E allora siamo chiari: manteniamo le distanze. Siamo sempre stati un pò snob, non perdiamo le buone abitudini. Vendiamocela come una soluzione di compromesso tra un mondo che non può più tornare indietro e un nuovo mondo che vede, nell’eccesso di interdipendenza, una crisi della socialità.
C’è un cambiamento di paradigma che sanziona la fine di una stagione culturale e politica. Anche se vale la pena di fermarsi a riflettere su come il respiro, quel soffio che, da che mondo è mondo, è alito di vita, possa essere diventato fonte di malattia e di morte. Per, poi, tornare ad aprirsi all’altro. Ma, adesso, con moderazione.
vedi pure