
Non sappiamo se tornerà in autunno, né se il caldo estivo lo renderà più debole. Due ambasciatrici cinesi a Roma alla fine di gennaio han reso pubblica la sua presenza. In un mondo che è cambiato. Dove ciò che dovrà farci paura non sarà perdere libertà e onore ma la socialità e la vita.
Il coronavirus è la nuova forma dell’avviso di garanzia, quel documento che veniva consegnato a casa da uomini in divisa per ricordare la presenza dello Stato e il giudizio dei giudici.
Una volta verrà il giudizio di Dio, aveva annunciato Giovanni Paolo II ad Agrigento, mentre il mondo diviso in blocchi si trasformava in quello globale. Oggi che anche quel tempo è finito, è arrivato il giudizio del virus. Che ha messo tutti agli arresti domiciliari, senza distinguere tra colpevoli e innocenti.
Un giudizio sommario, ma implicante la condanna di chi lucrava (e pretendeva di lucrare in eterno) su scambi materiali e immateriali senza tempo e senza spazio. Su legami precari, economie di scala. Sulla modernità che, adesso, lascia il posto a un tempo nuovo. Ancora senza nome.
È bastata un’entità invisibile, beffardamente legata al più misterioso degli animali, il mammifero volante che, chiamato in castellano, contiene tutte le vocali. Che ci pone di fronte alle domande dell’uomo di sempre, che avevamo dimenticato: chi siamo, dove andiamo. Uscire di casa una, due volte al giorno, prendere un appuntamento, scegliere pochissime persone tra tante: è tornato il tempo delle scelte.
Papa Francesco aveva ammonito circa la custodia della casa comune, la terra su cui viviamo e che calpestiamo. Stando in casa abbiamo – per adesso – nuovamente imparato a curare quella – piccola o grande – che appartiene a ciascuno di noi. Restituiamo alla geografia il suo significato, il senso dei confini e quello del limite. Il catéchon, potere che frena ciò che, senza limite, diventa abuso e delitto.
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La dittatura senza volto che toglie il respiro