
La relazione tra sviluppo e identità, la questione della qualità dello sviluppo, sono temi tanto discussi, tanto abusati, che la pandemia li richiama, certo, ma nel modo in cui le cose troppo vicine al proprio sguardo non riescono a vedersi e non destano più lo stupore.
Si pensi alla società opulenta, l’immagine usata dall’economista John Kenneth Galbraith per descrivere le storture delle nostre economie. O al virus del liberismo, dal quale siamo stati tutti inconsapevolmente contagiati dopo la caduta del muro di Berlino, che ci ricordava, anni fa, il gesuita Bartolomeo Sorge.
Quella che è, ormai, definitiva è la fine del discorso di sinistra che, infatti, rischia di preannunciare un blowback verso la conservazione, la paura del nuovo e del futuro. Nel migliore dei casi il falò delle vanità progressiste, con leader che balbettano non solo in Europa ma financo in America.
Sviluppo e identità, economia e cultura, la loro difficile sintesi, trovarono una formula nel paese più fragile e, per questa ragione, più strategico d’Europa quando, ricorderà Ettore Bernabei anni dopo, in Italia “subito dopo la guerra De Gasperi e Mattioli (il celebre banchiere-umanista) si misero d’accordo. I cattolici avrebbero tenuto le fila della politica mentre i laici avrebbero curato i loro interessi nella finanza, nell’industria e nell’editoria giornalistica”.
In parte si trattò di una divisione di compiti di facciata. Ma che consentì di non sottrarre dignità all’attività culturale, alla ricerca, alla speculazione, anche libera dalle costrizioni accademiche.
Dalla formalizzazione della fusione tra politica e affari e dalla separazione tra cultura e politica, dovute alla fine di quel mondo, deriva tutto il resto, ma forse non tutti i guasti, perchè – al netto delle disfunzioni di sistema – “causa di tutti i mali è l’avidità di denaro”, come diceva San Paolo.
La pandemia ha messo a nudo questo dramma: la folle corsa del mondo, il bisogno disperato di crescere senza un perchè. Una volta, la divisione del mondo in blocchi permetteva a ciascuno di trovare se stesso, identificando l’altro come diverso, nemico o, persino, male assoluto.
Ma ora il conflitto tra Australia e Cina, che ha per teatro l’Oceano Pacifico, nel quale questa decide di non piegarsi alla potenza del gigante asiatico, e in cui l’America, con sano pragmatismo, tende una mano alla prima, introduce un elemento nuovo.
Non si tratta, infatti, di una questione ideologica – tutti cercano da tempo alleati indipendentemente dall’affinità politica – o di una prova muscolare. Ma è un paese giovane – l’Australia – che si oppone a quella realtà sociale e culturale, la civiltà mai interrotta più antica della terra e per questo indecifrabile e inquietante, che è appunto l’Impero di mezzo.
Padri e figli, come nel romanzo di Turgenev, e giovani che sfidano i vecchi: uno dei conflitti più frequenti della letteratura occidentale, più tipici della sua cultura, rimanda all’autorità, alla libertà di scelta ma, anche, all’ardore, al desiderio (irrazionale) di riconoscimento.
Uno scatto che a tanti – magari i supponenti teorici del mondo globale – sembrerà una fatica inutile. Ma che può suggerire una chiave interpretativa del futuro. E che certo i cinesi non capiranno.