
Nei momenti di crisi la Chiesa Cattolica si comporta come istituzione di riserva. Quando lo Stato non trova, dentro di se, le risorse per rimettere ordine, per riformare se stesso. E conferma che le sue radici si trovano altrove. La difesa della classe politica delle proprie prerogative dissimula la propria impotenza. La forza discreta è, invece, pronta a far sentire il peso della sua antica tradizione.
Lo Stato ha avuto il volto delle procure ma quel potere è sfatto, in esaurimento. L’ennesimo atto di arroganza, che è uno sfregio al Parlamento, l’infamante accusa a chi governa di riformare la giustizia per aiutare chi delinque è, in fondo, mancanza di fiducia nell’uomo, di stima per la propria comunità.
Alimenta il clima di diffidenza culminato nei fatti orrendi avvenuti nelle carceri italiane. Essi non possono non avere avuto consenso nei piani alti del potere dove, ingiustizia nell’ingiustizia, non arrivano mai le telecamere.
Le pretese dei magistrati trovano una sponda nel giustizialismo di sempre, nella cultura dell’odio e del sospetto.
Ma una comunità deve farsi carico di tutti i suoi componenti, a cominciare dai fragili e persino dei reietti. Come quando, organizzando un servizio di trasporto pubblico non si debbano dimenticare le periferie o, raccogliendo i frutti da un albero, conviene partire dai rami alti, quelli dove occorre la scala.
La Chiesa non può farcela da sola e, soprattutto, non deve. Lo Stato può tenere insieme il complesso mosaico che è diventata la società solo laicamente. Ma proprio l’umanesimo cristiano offre non già la soluzione ma gli strumenti per unire.
La collaborazione – che si realizza se c’è il corrispondente spirito, esprit, nel tempo in cui si opera – riguarda chi giudica e chi difende un imputato, chi controlla i conti e chi amministra una città, chi costruisce ponti e chi tutela l’ambiente. Essa non è conflitto d’interesse, ma il suo esatto contrario. È la rinuncia al proprio utile di casta, di carriera o personale, per raggiungere un obiettivo comune.
vedi