Mafia e Stato al tempo del coronavirus

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Il coronavirus  ha messo lo Stato di fronte a se stesso, ai suoi limiti, alla sua ipocrisia. Se il fascismo fu l’immagine dello Stato forte, al punto da opprimere la persona umana, evocare il fascismo e seguitare ad indicare un analogo rischio è una operazione sbagliata. Piuttosto, lo Stato cerca disperatamente di difendere quel che resta della sua autorità.  A minacciarlo, infatti, sono forze invisibili globali, governate da misteriose entità che, un tempo, furono definite, Oltreoceano, menti raffinatissime.

Se il fascismo è un pericolo, lo è in quanto parte del problema della globalizzazione declinante che resta viva nella sua parte peggiore. La mafia, presente e attiva in Nigeria e in Canada, nel Libano e nei Paesi Bassi, in Russia e in Brasile, in tutto il mondo da che mondo è mondo, ha mostrato il volto di quella italiana, come le hostess nei congressi di aria fritta, le indossatrici e le veline.

Con i suoi doppiopetti, la sua parlata lenta e i tre figli di Vito Corleone a rappresentare le tre parti dell’anima di Platone. La proposta che non si può rifiutare diventò il tritolo e la sua versione analfabeta e terroristica non per questo è meno vera. Come vera era la minaccia di mettere le bombe nelle chiese, così mostruosa da lasciare perplesso lo stesso Bernardo Provenzano.

Assurdamente, a umiliare la Chiesa c’è riuscito il virus, imponendo la chiusura dei luoghi sacri mentre erano già aperti edicole e supermarket. È ipotizzabile, nella società controllata e trasparente del futuro, la mafia come entità sotterranea e parassitaria? Reggerà ancora il modello di industria del crimine come era stato concepito nel Novecento?

Cosa rimane dei difensori della proprietà e della vita (anche in senso lato) signorile e di quella mafia di città che finì per controllare traffici, appalti e commercio, alter ego della borghesia senza valori che sembrò aver trascinato nell’abisso gli stessi valori della borghesia?

 

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L’Occidente in polvere

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