“Il mondo – osservava Sergio Quinzio – è ritornato a unanuova e capovolta presunta immediatezza del nominare“. E, allora, il mondo delle cose diventa mondo delle parole. Il Novecento è stato il secolo del cemento, colato sulle città occidentali senza pietà per la storia. A Palermo si distruggevano ville liberty per far posto ai condomini, a New York Donald Trump non ebbe pietà per le statue del palazzo di prima, perchè bisognava far presto e costruire la sua torre sulla quinta strada. Le parole vuote gettate al vento nel mondo folle e bugiardo ci hanno già fatto rimpiangere il cemento del quale avremmo fatto volentieri a meno. Ma, forse, non è solo una questione di linguaggio, di idee e di verità, perchè nella esposizione di se stessi, delle proprie cose, c’è una volgarizzazione di quello che William James diceva dell’ intellettuale che, nel rendere pubbliche le sue idee, mostra il suo io più profondo, lo dona agli altri come in un sacrificio. Quasi che, nel sacrificio collettivo che sembra essere la costruzione del villaggio globale telematico e interdipendente, ritornasse la religiosità perduta, e, attraverso la tecnica, tornasse persino Dio, senza quell’ onnipotenza che la tecnica stessa gli negherebbe. Eppure, la rete ha permesso a ogni singolo individuo di porsi al centro del mondo. Virtuale, per carità, ma opponendosi alla più assurda delle iniquità: essere privilegiati perchè si nasce al centro e non in periferia. E proprio quando la tecnica e le sue asimmetrie informative – io so chi sei ma tu non sai chi sono – hanno reso possibile una nuova centralizzazione del potere, più estrema e radicale che mai.
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