
La paura è un sentimento indecifrabile. Nella paura c’è la nostra debolezza ma anche l’opposto: amore, passione, il rispetto di se stessi. Essa ha dominato il mondo antico, quando era nitida, si impugnava, si respirava, si leggeva negli occhi.
La paura di perdere qualcosa, la casa o il potere, il proprio patrimonio, indica la volontà di possedere, di conservare, e alla misura dell’angoscia corrisponde la profondità del sentimento.
Ma la chiusura verso l’altro, che rimanderebbe al desiderio di oblio, alla mancanza di carità, la cupio dissolvi che è propria dell’uomo insieme con tante altre cose, segnala altresì la semplice paura di vivere.
C’è, quindi, la paura di soffrire ma, anche, la paura di essere felici. Perchè, magari, si immagina che – una volta raggiunta la meta – la felicità non possa durare. O si riflette nell’altro questa paura e, quindi, meglio non provarci, ma lascia stare ma chi te lo fa fare. Cu ti ci porta.
La paura di Dio, timor Dei, ha accompagnato l’uomo per lunghi secoli, quando era il sovrasensibile a governare la vita delle comunità.
Il tipo d’uomo inconsapevole degli ultimi decenni, prodotto dal tempo che cerchiamo di lasciarci alle spalle, è senza paura e, in fondo, senza vita.
Ecco perchè avere indotto la paura attraverso una epidemia indecifrabile, almeno vista dal lato delle politiche che essa impone, può interpretarsi come rimedio alla crisi spirituale propria della fine del Novecento e di questo incerto inizio.
C’è, però, da chiedersi, terminata questa situazione di emergenza (e ammettiamo che non tutto quello che ci hanno detto sia vero, ma sulla nobile menzogna si fonda la politica e la storia delle idee e non c’è, in questo, nulla di scandaloso) c’è da chiedersi: di cosa avremo paura, dopo?
È ancora la paura ad indicare la strada: per esempio quella per il futuro di un figlio, che indica il senso della paternità, o quella di perdere l’onore, cioè il legame tra passato e futuro, l’importanza della tradizione? Persino il filosofo Francis Fukuyama, che aveva profetizzato una cosa diversa, ha rivisto la sua posizione.
Ma eccoci giunti al rischio implicito nella costruzione fondata sulla malattia e sulla scienza di cui vediamo, al momento, i (sinistri) contorni. Esso è che tutto ritorni al punto di partenza e, quindi, a tecnica e denaro, ovvero le cose che ci stavano perdendo, in una deriva cominciata al tempo della caduta dei muri e delle certezze novecentesche.
Se di tecnica si vive non avremo altro Dio al di fuori della tecnica. È per questa ragione che occorre cercare altrove. E non fuori di se, dove il virus resterà anche quando non ci sarà più, in forma di monito o di minaccia. Ma dentro. Sperando che qualcosa di buono ci sia rimasto.