Solitudine del giudice

La solitudine del giudice dovrebbe conformarsi a quella di Cristo
ph Stefie Zawa on Unsplash

L’indipendenza è, talora, una conquista, il traguardo di una vita, o il dono di una vita più intensa, il godimento maggiore di chi ha tanto patito. Nel caso del giudice è un dovere preciso, un obbligo giuridico e morale. Il poeta Hölderlin scrisse: “il nomos, la legge, è qui la disciplina, nel senso della forma secondo la quale un uomo si comporta verso se stesso e verso Dio, sono la Chiesa e la legge dello Stato e i principi della tradizione che stabiliscono, più rigidamente dell’arte, le condizioni di vita secondo le quali un popolo si è mantenuto e si mantiene nel tempo”. Il giudice incontra se stesso e, poi, cerca il riflesso di se nell’uomo che giudica e, infine, trova non un uomo ma l’uomo. In Occidente l’uomo trova se stesso solo nella sua unicità, in quanto riflesso del Dio unico. In questo, dovremmo sentirci tutti debitori di quanti hanno saputo rinnovare questo spirito, anche durante i momenti peggiori della storia, nella civiltà che ha radici a Gerusalemme e Roma. E che si declina nel toro grondante sangue nei pomeriggi abbagliati dal sole di Spagna, in quello scambio, col suo elegante aguzzino, della vita con la morte. Nella nobile solitudine di Socrate che beve la cicuta, che antepone la giustizia all’uomo, perchè la morte del singolo uomo impedisca la morte della giustizia, laddove rischierebbe di uccidere l’uomo per sempre. La solitudine del giudice dovrebbe conformarsi alla solitudine di Cristo sulla croce, l’attesa della sentenza da emettere trasmutarsi nell’ascesa sul Golgota, il supremo privilegio rivelarsi nella più grande delle sofferenze, la regalità in rischio della vita, quasi che l’estremo sacrificio fosse, implicitamente, contenuto nella funzione.

 

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